Vallecupola




La cenere vorticava nel callaro e affondava colorando l’acqua. Lucrezia, con degli stracci bagnati in mano, si piegò per spiccare il recipiente e riporlo all’esterno, sul bordo del camino; schermendo il volto dal bollore, riattizzò il fuoco. Asciugò le braccia sudate e pensò ansando che più tardi avrebbe aggiunto un soletto di rame. Già immaginava diffondersi per lo stanzone l’odore di pollo, rosmarino e patate.

«Come in una reggia», disse tra sé e sé.

Quella mattina, appena alzata, era scesa alla Madonnella per riempire la conca d’acqua e aveva incontrato Mafalda che, fatte le sue scorte prima di lei, tornava verso casa trascinando una gamba a fatica.

«Che è successo, Mafà? Che hai fatto?», le aveva chiesto con apprensione.

«Eh niente, ieri sera sono andata nel fienile, era buio… e sò scivolata sulla paglia», aveva continuato a strascicarsi come un’anima in pena. Lucrezia era corsa a strapparle di mano il secchio traboccante che si ostinava a trasportare e l’aveva aiutata a rincasare.

«Ma quindi dopo non ci vieni a Messa?», le aveva chiesto storcendo la bocca prima di richiudere l’uscio.

«E come faccio, figlia mia. Se penso che me tocca salì tutti ‘sti scaloni, me se fa scuro»

«Non ci sta nessuno a casa per accompagnarti, darti una mano?», aveva insistito Lucrezia con un pugno sul fianco.

«Sì, tra poco torna Dino, ma non ce la faccio, sento troppo dolore. Salutami Don Tomasso e digli che sarà per la prossima, ahah», si era cacciata le mani nelle saccocce e aveva scosso il capo. Aveva estratto una moneta da dieci lire : porgendola a Lucrezia, si era raccomandata di riporla nella bussola per conto suo, affinché il Signore le guarisse quanto prima la gamba difettosa.

La ragazza aveva poi finito di riempire l’acqua alla fontana gorgogliante; acciambellata la sparra sul capo, si era diretta verso casa con la conca sulla testa, le braccia in alto per tenerla in equilibrio. Aveva inceduto con l’eleganza di una funambola, l’orlo della gonna che svolazzava attorno alle caviglie.

Adesso, dalla grata di ferro della finestra la raggiungevano le voci concitate delle vicine:

«Marì, sbrigate a fà tutte ‘ste cose eh, che sennò qua a Messa non ci arriviamo manco quando fa li intocchitti»

«Essome, essome, arrivo!»

Nel callaro che riposava sui mattoni, la cenere si era depositata sul fondo. Brandendo un mestolo freddo, Lucrezia riempì una catinella con la lisciva che si era formata.

Mentre si chinava con la testa, avvertì un metallico rumore di passi. Il din din, prodotto dalle bollette di scarponi che battevano sulla pietra, si insinuò tra le case svoltando per i vicoli fino a raggiungere la soglia. Il portone di legno cigolò e si infilarono due agili figure: la prima, bassa e saltellante, avvolta in uno scialle nero da zingarella; l’altra, più lunga e composta, aveva una camicia che fasciava le spalle larghe e le braccia nerborute.

«Adesso ti fai mettere un po’ di brillantina», cinguettò Aurora al fratello mentre riaccostavano, poi si precipitò sulle scale.

Il giovane, rimasto solo, riempì di azzurri cardi fioriti il vaso sul davanzale.

«Stai usando la lisciva per i capelli?», chiese grattando i baffi.

«Per forza, non c’era altro», rispose Lucrezia intenta a massaggiare la cute con vigore. Risciacquò accuratamente, il fratello ne seguiva i movimenti appoggiato al tavolo, le braccia conserte. I capelli di lei risplendevano come miele d’acacia, quel rito di purificazione li indorava. Strofinò un asciugamano sul capo alla bell’e meglio e poi si spostò, seguita da lui, all’esterno per farli asciugare al sole. Sedette sullo scalino di una cantina alla fine del vicolo, là dove avevano sistemato un lungo fil di ferro per appendere i panni. In quel momento la vicina si affacciò alla soglia per svuotare un secchio d’acqua e schiuma sul bordo della viuzza.

«Buongiorno Assunta» le fecero in coro.

«Ragazzi! Che belli che siete, vi state preparando?», se li rimirò qualche secondo appesa alla scopa. «Siete proprio identici spiccicati ai vostri genitori, Dio li abbia in gloria», spazzò un po’. Vedendoli assorti continuò: «‘sti capelli, Lucrè, mi sembrano angelici… sì, sì, del Paradiso, capito? Tipo i ricami di certi paramenti del prete…» e scuoteva la mano: «Ah, che meraviglia, ce li avessi avuti io, capelli così», buttò uno sguardo verso un punto sconosciuto oltre le mura degli abituri, oltre le tegole, oltre il cielo. Puntellò il mento sul manico della scopa e sospirò.

«E Antonio? Si è svegliato?», chiese il ragazzo a un certo punto, interrompendo le sue fantasticherie. Trasalì come ridestata, lo fissò, poi scosse la testa e riprese a spazzare. La sera prima, con gli altri uomini del paese avevano giocato a briscola e a morra e si erano scolati fiaschi di vino. Avevano passato il tempo così, a ridere e zinzinare aspettando il sonno. Evidentemente Antonio era ancora rintronato tra le lenzuola.

Aurora corse nella loro direzione con il barattolo di brillantina nuovo. Lo svitò:

«Adesso ti fai impomatare». Allo sbuffo di lui aggiunse: «Dai, da bravo»

Lui, che teneva le mani in tasca e la schiena aderente al muro, abbassò la testa per la tortura. Prima di iniziare l’opera, la bimba porse alla sorella un foglietto.

«Questo me lo ha dato Edoardo… se vuoi te lo leggo io… visto che ho fatto la seconda e leggo molto bene», si esibì in tronfie moine, «me lo dice anche Settimio quando vado a casa sua a leggergli le poesie»

«Io sò arrivata alla terza e quindi so leggere da me, sciò», Lucrezia agitò la mano per allontanare la peste curiosa. La bimba, di tutta risposta, ruotò il capo impassibile e tornò a impomatare il fratello con indifferenza, come a dire Queste storielle infantili non mi interessano.

Lucrezia spiegò il biglietto stropicciato. In un tremolante corsivo, c’era scritto:

Incontriamoci al lavatoio questo pomeriggio alle quattro Devo dirti una cosa importante


***


Zia fa capolino fra gli scuri incrociati delle imposte:

«Oh, sei già qua?», si ritrae assonnata, «Arrivo». Dalla finestra aperta proviene il tenue vociare di una televisione accesa. Si sente uno scalpiccìo di ciabatte al piano di sopra, poi una sorta di trotto sul marmo delle scale. La chiave mormora nella toppa.

«Buongiorno», sorrido porgendo la bottiglia di bianco che le avevo promesso, «ti sei ripresa dalla festa?»

Inclina la testa e la batte con il polso:

«Ce l’ho ancora in capoccia, la musica», si blocca un istante, poi prende ad annuire trasognata verso i tigli nella strada, «Però quant’è stato bello vedere la piazza di Rocca così piena di gente che ballava… zompettavano come li daini! E i bambini, poi… ripenso al povero Alvaro, te lo ricordi, no? Mi insegnò lui a ballare quando vivevo a Vallecupola. Tutte le volte che suonavano l’organetto alle feste eravamo coppia fissa, anche se lui era più grande. E poi si cantava, sempre, anche quando si lavorava. Si cantava…», porta il dorso rugoso della mano a coprire le labbra tremanti, stropiccia gli occhi lucidi. «Dai, entra»

Quando l’ho incontrata qualche sera fa, alla festa organizzata per i Santi Agapito e Giustino, mi sono quasi commosso, non la vedevo da tanto. Raggomitolata sulla sedia di plastica e avvolta nel suo scialle nero, mi è sembrata piccolissima. Mi sono chinato per baciarla sulle guance e l’ho vista pallida, secca. Il tempo passa e non ci voglio credere, non voglio farmene una ragione. Nella mia mente rimarrà sempre intrappolata nel ricordo delle nostre passeggiate alla ricerca di more, quando rideva gioconda e rubizza nei suoi abiti leggeri. Con i cestini di vimini, in estate, camminare insieme per le strade attorno a Vallecupola, e cercare tra i rovi le perle più nere e splendenti. Leggera. Nella mia mente camminerà sempre così, come se non mettesse piede sull’asfalto, sempre una spanna sopra i sentieri battuti dai mortali. L’altra sera, però, ha persino fatto fatica ad alzarsi dalla sedia. Mi sono sentito senza forze anch’io. «Funziona così», mi sono ripetuto, cercando di ricacciare le lacrime negli occhi.

Su Piazza della Vittoria le luminarie verdi, rosse e blu si accendevano a intermittenza; i piccoli aceri attorno alla fontana, fasciati da lucine a led, come cespugli di stelle. Il complesso si scatenava in un fragore multicolore, i fari dal palco proiettavano sui sanpietrini allegre geometrie danzanti. Il sassofonista, sceso tra la gente, si fletteva atletico in mezzo ai ballerini in una confusione armonica. Si distribuivano tutti in quella pista da ballo come pinoli pestati in un mortaio. A un certo punto la cantante, una sirena dalle treccine nerissime, aveva annunciato una mazurca: tutti avevano iniziato ad aggirarsi in coppie, impettiti. E poi era arrivato il momento della quadriglia e del tacco e punta e i ballerini – disposti in un immenso cerchio, meccanismo d’orologeria – si erano abbandonati alla corrente. Tra i performer la mia preferita era Patrizia, la parrucchiera: nella mischia saltava gioiosa, ancheggiava portandosi talvolta le mani sui fianchi. Luccicava, regina della festa.

«Come va il lavoro?», chiede zia versando del succo alla pera in un bicchiere di vetro.

«Bene, bene, abbiamo un sacco da fare, forse pure troppo», tiro su le sopracciglia carezzando la barba.

«E Roma, com’è?», spinge nella mia direzione un piattino di coccio con dei pezzi di crostata.

«È quello che è… piena…», raccolgo nel palmo alcune briciole cadute sul tavolo e le rovescio nel piatto.

Zia si alza e puntellandosi ai mobili che ha intorno raggiunge la credenza, dalle cui ante estrae un sacchetto di carta:

«Ti ho preparato dei panini, almeno non devi pensare al pranzo». Dal cassetto tira fuori anche una fotografia in bianco e nero logorata dal tempo, me la porge: «Così lo ritrovi più facilmente». Tira un enorme sospiro.

Nella foto, un ragazzetto – potrà aver avuto attorno ai vent’anni – ammicca verso qualcosa al di là dell’obbiettivo. Gli occhi scavati, un ciuffo fluente. In tutta la sua floridezza, lo infilo nello zaino.

«Eh… erano altri tempi. Poi ce ne siamo andati tutti, io qua a Rocca, tua nonna a Roma, e Vallecupola s’è svuotata», si siede di nuovo, «Quand’è che sei tornato?»

«Per la sagra dei maccheroni a fezze. Penso di rimanere un paio di settimane», rispondo pensieroso. «Mi sa che vado, altrimenti si fa tardi»

Stando a Google Maps, la distanza da percorrere da Rocca Sinibalda a Vallecupola consta di 18,3 km, per un totale di 27 minuti di viaggio in macchina.

Spengo il telefono e do un bacio alla zia.

«Ah, i fiori!», mi aiuta a sistemare l’involucro nel portabagagli.

Prima di partire faccio due passi. Il castello , che dal bar si vede oltre le poste e la farmacia, si erge in un gioco di merli e cipressi. Composto, elegante come un cervo, impera sull’intera valle. Riattraverso la piazza per raggiungere la macchina. La fontana, come una coppa, rovescia acqua con un sussurrìo. Fontana di rustico amore.


***


Lucrezia calava lungo la mulattiera, tra i sassi e gli spini, verso Fonte Sambuco. Alla Messa Edoardo non c’era stato, le aveva fatto uno strano effetto, brutto. Fino a prima si conoscevano solo di vista, come tutti in paese. Avevano iniziato a notarsi lì, durante la funzione. Le donne di solito sedevano sulle panche, mentre gli uomini rimanevano in piedi in fondo, vicino al portale, dai cui battenti aperti penetravano gli schiamazzi dei bimbi che correvano per la piazza. Da tempo avevano preso a guardarsi, tra i canti e le letture. Si voltava verso di lui che ricambiava e sorrideva, la camicia azzurra nei calzoni. Allora lei arrossiva e tornava a fissare l’altare, dove Don Tommaso armeggiava con il calice e la patena. Prendeva l’ostia:

«Accipite et manducate ex hoc omnes: hoc est enim Corpus meum, quod pro vobis tradetur»

Così avevano chiacchierato qualche volta sul sagrato. E avevano anche passeggiato assieme. Quel giorno però lui non si era visto e la curiosità – non priva di timore – di conoscere quale ne fosse il motivo era cresciuta, soprattutto per via di quel biglietto che teneva tra le dita e le sembrava troppo misterioso.

Raggiunse un piazzale circondato dalle stalle e da un orto ribassato rispetto alla via. Davanti a lei, il fontanile invaso da un nugolo di donne. Strofinavano i tessuti con dei pezzi di sapone mentre intonavano come fringuelli

«Quel maaazzolìììn di fioriii, che vien dalla montaaagna»

Dal coro si levò una voce che esclamò:

«Caterì, l’hai visti che belli ‘sti cococcióli che hanno piantato qua?» fece cenno con la testa, per poi grattarsi dietro l’orecchio con la spalla, «Sarebbe da fregassene un paio, giusto pe prende i semi e ripiantalli n’altr’anno»

«Eh già» l’assecondò Caterina, che si staccò dal gruppo per stendere le lenzuola in cima alla macera.

Lucrezia superò il lavatoio, sul retro del quale una strada proseguiva fino alla Forca. Proprio da quel percorso ridiscendeva Edoardo, la zappa sulla spalla e il tascapane a tracolla. Quando fu sufficientemente vicino, le porse una manciata di piccoli frutti:

«Ho colto un cico d’agorali e moriche pe Aurora», travasò le perle nere e giallognole dal palmo della sua mano richiusa a coppa a quello di Lucrezia, che le fece rotolare nella tasca dell’abito di cotone. «Ho trovato anche un po’ di crugnali ma mi avevi detto che non le piacevano, quindi li ho lasciati stare»

«Sì, sì, quelli li sputa subito, sono troppo agri», rispose sgualcendo il tessuto per l’attesa. Si inchiodò al posto, pendendo dalle labbra di lui.

«Allora.» fece, per sciogliere la tensione. Le cinse il fianco con un braccio, «Ho parlato con Manolo e s’è deciso d’anticipà la partenza, c’è la siccità, quindi è meglio se le pecore le portiamo via subito, hanno bisogno d’erba»

«Quando?» chiese Lucrezia con una fitta allo stomaco.

«Eh… domani mattina.»

La ragazza sgranò gli occhi e si liberò dalla presa, le dita sulle tempie.

«No, non fà così però, non me guardà co ‘sta faccia… s’è deciso così… siamo in tre pe ‘sta transumanza, non dipende da me…»

«Io pensavo di avere più tempo», protestò la ragazza soffocando i singulti.

Lui allargò le braccia scuotendo il capo:

«Non ci posso fare niente, dispiace anche a me…»

Disse che, una volta tornato, avrebbero potuto sposarsi, fare tutto. Era deciso.

Lei guardò intorno per la via deserta. Solo li raggiungeva il canto delle lavandaie con lo sbattere degli stracci.


***


Imbocco la salita che conduce alla piazza principale di Vallecupola, su cui affaccia la Chiesa di Santa Maria della Neve , ma poi torno in retromarcia in direzione dei giardini pubblici e parcheggio accanto al marciapiede. «È più comodo», mi dico.

Mi incammino in direzione di Varco Sabino con il mazzo di semprevivi incartati sottobraccio. Da piccolo, durante le estati in cui tornavamo a Vallecupola, ho percorso questa strada decine di volte con le ali ai piedi, abbandonando le voci lontane di nonna e zia che parlottavano dietro di me. Fino ad arrivare lì, in quel camposanto sperduto, di rado visitato da qualcuno. Supero la cinta muraria e mi immergo in un altro mondo, fatto di ricordi che sbiadiscono. Ripenso a una canzone che fa

They were born and then they lived and then they died.

I miei passi rimbombano tra le pietre. Tutte queste persone dove sono adesso? Dove i loro amori, gli odi, le passioni? Il vuoto che ho attorno mi fa pensare a un Partenone che crolla, il frontone – con tutta la sua mitologia – si sbriciola, le colonne rotolano a valle.

Ritrovo la lapide dei nonni, effigiati in pose austere. A terra spacchetto i semprevivi. Compongo mazzetti variopinti che distribuisco nei loro vasi e in quelli di altri parenti, destreggiandomi tra le pareti di nomi e inerpicandomi sulla pesante scala a castello che cigola non appena la trascino.

Mi inoltro in un’altra zona dove riposano anime che non conosco. Con la nonna e la zia passavamo lì per visitare una persona soltanto. Eccolo, proprio di fronte a me. Accanto alla sua foto, la stessa che mi ha dato la zia, stazionano secchi crisantemi. Faccio un segno della croce, abbasso lo sguardo.

Ci hai lasciati da soli nel fiore dei tuoi anni, vivrai sempre nei nostri ricordi.

Ogni volta che, bambino, leggevo questa frase scolpita nel marmo, mi improntavo a gravità, forse anche perché nonna rimaneva lì, composta, nervi solenni e cuore irrigidito. Portava un bacio con le dita secche sulla sua immagine:

«L’hai visto, eh, che sono tornata a salutarti?», abbozzava un sorriso con gli occhi rossi. «Vivi sempre intensamente tutto quello che puoi, non sai mai quanto tempo ti è dato», mi diceva lisciandomi i capelli, la voce roca.

Dopo aver passato uno straccio per rimuovere la polvere e il terriccio dalla lapide, depongo un mazzetto di semprevivi anche nel suo vaso.

Fuori dal cimitero provo a comporre il numero della zia, ma il segnale va e viene e non arriva a più di due tacche. Non riesco a inoltrare la chiamata, il display mi avverte che non c’è campo. Ci sono abituato, qui è sempre stato così, però in certi posti strategici si riesce a far prendere il cellulare, anche solo per qualche minuto. Di solito in questo punto funzionava perché ci si aggancia al ripetitore di Varco, il quale ora sembra ostinarsi a non concedermi mezza conversazione. Scorrazzo per il prato e mi isso su un masso come una capra, il braccio teso in alto alla ricerca del segnale perduto con l’aria che rinfresca le mascelle. Rinuncio maledicendo il gestore telefonico.

Sghignazzo al ricordo di quando, da ragazzi, gironzolavamo peregrini per tutti i sentieri alla ricerca del segnale per esclamare, poi, alla prima timida lineetta che si fosse mostrata sullo schermo: «Qui prende! Anche qui prende!» a imitare il trionfante accento di Bruce Willis nella pubblicità.

Quando torno ai giardinetti pubblici, da dove si scorge la Torre, proseguo oltre la fontana e mi infilo in un viale alberato che costeggia delle case. Raggiungo l’entrata più bassa del borgo. Da qui si diparte un serie di scaloni distribuiti su vicoli a zigzag attraverso cui si può risalire il paese. I vicoli sono fiancheggiati da muraglioni. Poco più su, la Madonnella.


***


Il mucchio di pannocchie troneggiava al centro del cucinone. Tutt’attorno le ragazze, accomodate su seggiole di paglia, le scartocciavano per poi passarle ai fidanzati, che intrecciavano le fiette. Lucrezia, con quegli aurei tesori tra le mani, pensava alla sorellina che a pranzo aveva recitato una filastrocca. L’aveva fissata per un po’, aveva spalancato la bocca in un muto gridolino e poi era saltata dalla sedia.

«Senti questa», aveva schiarito la voce:

«

“Chiccolino, dove stai?”
“Sotto terra, non lo sai?”
“E laggiù che cosa fai?”
“Gonfio e cresco, non lo sai?”
“Spunterai per questa sera?”
“Spunterò per primavera!”
“Mi darai un fiorellino,
come il pesco del giardino?”
“Non un fiore, ma un tesoro,
ti darò una spiga d’oro.”
»

«Ma è bellissima!», aveva esclamato Lucrezia, mentre il fratello aveva accompagnato con un piccolo applauso i profondi inchini di Aurora.

«L’ho imparata a scuola, ci ho ripensato solo ora perché stavo guardando i tuoi capelli, mi sono sembrati un campo di grano. Allora ho pensato: tu immagina se ogni capello fosse nato da un chiccolino piantato e cresciuto sulla tua testa, sarebbe incredibile! Ce la scriverò io, una poesia», ed era corsa a cercare carta, penna e calamaio, le trecce che saltellavano sulla schiena.

Aurora si accingeva a frequentare la terza elementare e tanto sperava di poter continuare fino in quinta. In pochi avevano potuto permetterselo, ma lei amava leggere e studiare, li aveva pregati. Certo, rimuginava Lucrezia, questo avrebbe significato lavoro in più, quei pochi tacchini e qualche saltuario rammendo retribuito non avrebbero potuto essere sufficienti. Ne avevano discusso tutti e tre a tavola e il fratello le aveva ricordato che gli ultimi due anni di scuola non si sarebbero svolti a Vallecupola ma a Varco, a quattro chilometri di distanza. Avrebbe dovuto camminare a lungo ogni giorno e, d’inverno, sulla neve. Aurora si dichiarava pronta a tutto, irremovibile guerriera.

«Che schifo!», una larva si contorceva dentro a uno scartoccio come un nobile signorotto nella sua poltrona.

Entrò Antonio sbattendo la porta, una sigaretta in bocca. Maledisse il vento che ululava tra i vicoli e spegneva le lampade a carburo dei lampioni. Si sfregò le mani:

«Fa freschetto, stasera». Buttò la cicca nel camino, «Scusate il ritardo… avete ancora bisogno di una mano?»

«No, qui abbiamo finito» rispose Edoardo a cui Lucrezia passava l’ultima pannocchia, «aiutaci a spicciare e poi inizi con l’organetto»

La stanza si trasformò in un formicaio, per qualche minuto tutti furono indaffarati a ripulire la polvere piovuta sulle mattonelle durante il lavoro e a mettere a posto, accatastare i sacchi, agganciare le fiette alle travi.

Antonio s’assettò in un angolo e suonò una polka, poi un valzer. I giovani turbinavano nella stanza flessuosi. Lo pregarono di eseguire anche una quadriglia . Avevano poco spazio ma si divertirono, con Alvaro che amava comandare il ballo burlescamente: i suoi ordini confondevano le dame e i cavalieri fino a farli incespicare. «Contré!» urlava salterellando tra i ballerini allegri. «Zighete zaghete!», e intanto si infilava tra di loro roteando come una pantasima.

Antonio continuava a far soffiare lo strumento, inebriato dalle giravolte di suoni. Maria gli offrì un bicchiere di vino e lui suonò con più foga, piegato sull’organetto, molleggiando la testa e battendo il tacco a tempo.

Avrebbero continuato all’infinito, ma verso mezzanotte la musica si spense, i ballerini si quietarono: Edoardo e i suoi due soci dovevano riposare per alzarsi presto il giorno dopo.

«Così… ve ne partite?», fece Maria con una voce delusa, sconsolata «… sai che noia adesso…» e li abbracciò uno ad uno.

Lucrezia salutò l’amato l’indomani mattina. Gli accarezzò la mano, disse:

«Ti aspetto»

Poi raggiunse il muraglione vicino alla Madonnella, da cui si scorgevano tutte le valli e i campi attorno al paese, per seguire dall’alto la carovana di pecore che se ne andava lungo la mulattiera. La marcia era guidata dai campanacci dei viarelli. Gli asini chiudevano la fila, carichi di reti, coperte, cupelle.

«Ti aspetto», ripeté.


***


Inizio la risalita. Cammino a rilento, mi fermo all’altezza del muricciolo prima del Palazzo Iacobuzzi. C’eri tu, qui, Attilio. Ogni volta che passavo. Con il tuo bastone e i tuoi baffetti candidi. Al ritorno dalle passeggiate ti mostravamo le more che avevamo colto, e qualche nocchia.

«E bravi, bravi», sorridevi soddisfatto.

Talvolta ti incontravamo per strada a scorrazzare in sella al tuo motorino, con cui andavi a governare le galline nell’aia.

Ti immagino seduto qui come una statua a dominare il vento, vegliare su queste valli, proteggerne le storie: si salveranno dal tempo?

Risalgo gli scaloni e non riesco a darmi una risposta, procedo tra le vie a zigzag fino a raggiungere la Madonnella incastonata nella parete: ha una corona, dalle mani fuoriescono dei raggi. Sotto di lei si dipana il lungo muraglione.

Lucrezia è ancora lì. È sempre rimasta lì. Asciuga le guance con le maniche:

«Lucrè, ma che hai? Perché piangi così?», si dice da sola, «Mi sembri una bambina!». Stropiccia gli occhi con le nocche: «Da quando sei così frignona? Tornerà… come tutti, come sempre… tornerà tra qualche mese e allora potrai passare l’intero giorno con lui, devi aspettare», tiene il pugno tra il mento e il collo, le iridi rilucono.

Sussulto, gli zigomi pesanti.

Non tornerà. Me lo ha raccontato zia Aurora. Ad Aprilia, una mattina di novembre, in un campo inciamperà su un ordigno bellico inesploso. I compagni, allarmati dal boato, ritroveranno il corpo straziato. La notizia rimbomberà fino a Vallecupola, le urla di sua madre in ginocchio trapasseranno i muri.

La guerra non l’aveva sfiorato, l’aveva sofferta come gli altri, con gli aerei che passavano e tutti si rifugiavano nelle cantine; ma poi avevano suonato le campane per annunciarne la fine. E allora era parsa a tutti una benedizione, si erano rovesciati nella piazza giulivi con un macigno in meno sul cuore. «Ero una monelletta, me lo ricordo come fosse un sogno», mi diceva sempre la zia commossa. Ma la guerra semina morte anche a distanza di anni. Rimane sepolta, silenziosa, pronta a riaffiorare dall’erba. Si era portata via anche lui, luminoso come un dente di leone.

Tra un po’ andrò a salutare Angelino e Maria Pia, che ancora vivono qui e custodiscono i ricordi del borgo. Sicuramente li abbraccerò. Per il momento rimango fermo a immaginare questa ragazza bionda davanti a me, al cospetto della Madonnella che veglia silenziosa.

Con la mia mano racchiudo, come in uno scrigno, quella di Lucrezia che tremola convulsamente sul muro ruvido. «Addio… a presto» sussurra all’amato lontano che procede, cappello e bastone, tra le macchie bianche in marcia. Socchiudo gli occhi – due pozze – e adagio la testa accanto alla sua. Mi esce un gemito accorato:

«Nonna…», con le mani bagnate di lacrime le accarezzo i capelli d’oro, che io ho visto solo quando erano diventati ormai candidi.

In silenzio, osserviamo la mulattiera. Il gregge non si vede più.

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